27 Mar apertura di un punto vendita di cannabis light
Per cannabis light si intendono le infiorescenze di cannabis che hanno un basso contenuto di THC. Il dato quantitativo di tale principio attivo, cui bisogna riferirsi in relazione alla liceità di coltivazione e conseguente commercializzazione, viene stabilito dalla Legge n. 242/2016, che limita la coltivazione, l’acquisto e la vendita di cannabis nelle forme legali a condizione che il contenuto di THC sia inferiore allo 0,2%.
Inoltre, l’art. 4 del dettato normativo in parola prevede una soglia, dello 0,6%, oltre la quale il THC della sostanza non può essere oltrepassato a pena di incorrere nella fattispecie penalistica di riferimento, ex art. 73 d.P.R. 309/90: “qualora all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge.”
In altri termini, qualora il quantitativo di THC della sostanza superi la soglia di 0,6%, tale condotta potrà essere perseguita penalmente.
Dal varo della legge n. 242/2016 si sono poi succeduti alcuni interventi ministeriali, volti a specificare in maniera ancora più puntuale la tematica normativa che qui occupa.
In tal senso, appare possibili richiamare la circolare del MIPAAF del 23 maggio 2018, che, dopo aver ribadito i principi fondamentali di cui alla legge 242/2016, si è concentrata sulla normativa della coltivazione nell’ambito del settore florovivaistico, confermando che la coltivazione di cannabis light può avere inizio solo da semi certificati. Non è dunque possibile procedere con la riproduzione agamica, ovvero mediante utilizzo delle talee.
Come sovente avviene nel nostro Paese, a sostituirsi in parte all’organo legislativo è quello giudiziario e, dunque, nel corso degli ultimi anni molteplice sentenze giurisprudenziali hanno contribuito a definire un settore altrimenti troppo denso di elasticità e aleatorietà.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4920/19 della VI Sezione, si è soffermata su una questione divenuta, a seguito dell’avvento della L. 242/2016, particolarmente controversa nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni, segnatamente quella della liceità della commercializzazione di infiorescenze ad uso ricreativo che costituiscano derivati dell’attività di coltivazione resa lecita dalla richiamata normativa del 2016.
Nello specifico, la normativa in parola, che si propone di incentivare la filiera agroindustriale della canapa, consente all’agricoltore la coltivazione delle 62 varietà di cannabis sativa L incluse nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali vengono quindi escluse dall’ambito di applicazione del testo unico in materia di stupefacenti (D.P.R. 309/1990).
Da questa coltivazione, a mente dell’art. 2 L. 242/2016, possono essere ottenuti alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; materiale destinato alla pratica del sovescio; materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; coltivazioni destinate al florovivaismo.
Inoltre, si prevedono alcune condizioni che, se soddisfatte, rendono lecita la coltivazione.
Da un lato, il coltivatore deve rispettare specifiche prescrizioni indicate dall’art. 3 della L. 242/2016 («Il coltivatore ha l’obbligo della conservazione dei cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi. Ha altresì l’obbligo di conservare le fatture di acquisto della semente per il periodo previsto dalla normativa vigente»).
In secondo luogo, viene previsto un doppio limite di THC (principio attivo che induce gli effetti droganti) rilevante ai fini normativi: superato il limite dello 0,2%, il coltivatore non può accedere al regime di sostegno economico previsto dalla normativa comunitaria (Regolamento CE 73/2009); se la quantità di THC, pur superando tale limite, resta al di sotto della soglia dello 0,6%, è inibito il sequestro ad opera dell’autorità giudiziaria ed è esclusa ogni forma di responsabilità penale dell’agricoltore che abbia rispettato le già richiamate prescrizioni previste dalla legge; laddove venga superato il limite dello 0,6%, sono possibili il sequestro e la distruzione delle piante ma al contempo è esclusa la responsabilità dell’agricoltore che abbia agito nel rispetto delle suddette prescrizioni.
La questione che si è posta all’attenzione degli interpreti, in quanto non affrontata espressamente dal Legislatore e pertanto oggetto di molteplici pronunce della Corte di Legittimità, riguarda la liceità o meno del commercio dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L (o canapa), come ad esempio le infiorescenze ad uso ricreativo (anche note come marijuana).
L’entrata in vigore della Legge 242/2016 ha incoraggiato, proprio sull’onda del percepito sdoganamento della coltivazione di canapa, l’apertura di esercizi commerciali nel cui oggetto commerciale rientra (la detenzione ai fini di vendita e) la vendita al dettaglio di infiorescenze della cannabis, altri preparati a base di cannabis, oltre che di merchandising a tema.
La questione della liceità penale di tale condotta (e della liceità amministrativa del possesso di marijuana per uso personale) è pertanto divenuta di recente particolarmente discussa e oggetto di attenzione da parte dei mass media, non solo in considerazione del sempre attualissimo dibattito sulla legalizzazione delle droghe c.d. leggere, ma anche tenuto conto delle conseguenze che un certo indirizzo giurisprudenziale può produrre sulla vita di coloro che hanno deciso di investire a livello imprenditoriale in questa tipologia di commercio all’apparenza autorizzato.
Con la pronunzia in commento, il Giudice di legittimità afferma la liceità penale della condotta di cessione di derivati della coltivazione che sia stata effettuata nei termini di cui alla richiamata legge, e la liceità amministrativa della condotta di detenzione di tali sostanze per uso ricreativo, sulla scorta di un percorso argomentativo di particolare interesse, del quale si intende qui indicare i tratti salienti.
A parere della Suprema Corte, la Legge 242 del 2016, stando alla lettura dei suoi lavori preparatori, si pone quale obiettivo quello di promuovere l’intera filiera agroindustriale della canapa per fini di sviluppo del settore primario. Da ciò deriva quale conseguenza logica che, ove il legislatore esclude la coltivazione di cannabis sativa L dall’alveo penalmente rilevante del D.P.R. 309/90, intende sottrarre da tale perimetro la complessiva catena produttiva e commerciale che trae l’incipit dalla coltivazione attuata nel rispetto delle prescrizioni della legge citata e pertanto lecita.
Ciò vale, in particolar modo, per i derivati della coltivazione che non siano espressamente contemplati dall’art. 2 della L. 242/2016, in quanto per i prodotti già letteralmente citati dalla norma in parola non si pone alcun tipo di questione problematica, essendone logicamente ammissibile la commercializzazione. Dubbi infatti sorgono, come si è detto, solo con riguardo al commercio delle infiorescenze ad uso ricreativo, in quanto non espressamente inserito tra i fini garantiti dalla normativa.
Tale impasse è considerata solo apparente dalla Corte di legittimità, la quale ritiene che la liceità della vendita e della detenzione a fini personali di simili derivati sia implicitamente inferibile da un’attenta valutazione delle finalità della L. 242/2016 e dei rapporti tra detta normativa ed il testo unico in materia di stupefacenti.
Più precisamente, essa deriva dalla sottrazione dell’attività di coltivazione di canapa dal tessuto normativo del D.P.R. 309/1990 e dalla conseguente liceità che assume (“a cascata”), laddove non contrastata da norme sanzionatorie ad hoc, ogni attività – tra le quali la rivendita e la detenzione per uso ricreativo – che trovi la propria genesi in una condotta lecita, quale è quella di coltivazione della canapa secondo i parametri di cui alla legge 242 cit. ed entro i limiti di THC dello 0,6%, che costituirebbe la soglia entro la quale gli effetti della cannabis non possono considerarsi psicotropi o stupefacenti ai sensi del testo unico del 1990.
In sintesi, qualora il commerciante dimostri la provenienza lecita delle infiorescenze di cannabis alla stregua della L. 242/2016 ed il principio attivo sia mantenuto entro la citata soglia dello 0,6%, nessuna responsabilità penale potrà a lui ascriversi.
Qualora, invece, si dimostri superata la soglia, la Corte precisa, “come per l’agricoltore, così anche per il commerciante […] è esclusa la responsabilità penale e, quindi, è ammissibile solo il sequestro in via amministrativa (art. 4, comma 7, legge n. 242/2016). A una diversa conclusione potrà giungersi soltanto se risulti che il commerciante sia stato consapevole (a fortiori, se artefice) di trattamenti del prodotto successivi all’acquisto dal coltivatore e volti a incrementare il contenuto di THC”.
In relazione alla posizione dell’acquirente, egli va considerato soggetto che fruisce liberamente di un bene lecito, sicché il consumo del prodotto derivante da una catena di produzione e vendita lecita ai sensi della L. 242/2016 non costituirà illecito amministrativo ai sensi dell’art. 75 d.P.R. 309/1990.
In altri termini, anche all’acquirente deve ritenersi applicabile l’esimente prevista per l’agricoltore ed estesa dal Supremo Collegio al rivenditore, nel caso di superamento della soglia legale dello 0,6%, in quanto non vi è motivo di dubitare che anche l’acquirente, così come il rivenditore, faccia parte della filiera agroindustriale tutelata dalla legge e ne costituisca l’anello finale.
Potranno valere per l’acquirente le stesse considerazioni svolte per il rivenditore, relative alla illiceità del prodotto laddove esso sia stato oggetto di trattamenti volti ad aumentare il contenuto di THC che siano noti al cliente, dovendosi tuttavia effettuare un distinguo: a) se l’acquirente detiene per uso personale, non può che ritenersi la rilevanza amministrativa della condotta; b) se, in base agli ordinari canoni di valutazione del testo unico stupefacenti, il prodotto acquistato è destinato alla cessione, opereranno le fattispecie penali previste dall’art. 73 del suddetto testo unico, dovendosi in ogni caso accertare la capacità della sostanza di produrre un effetto drogante in concreto rilevabile.
Per completezza, deve rilevarsi come la sentenza si collochi in un panorama giurisprudenziale sul punto ancora ondivago, esistendo precedenti difformi, come le sentenze Cass., sez. VI, 17 dicembre 2018, n. 56737 e Cass., sez. VI, 10 ottobre 2018, n. 52003 che sostengono la rilevanza penale delle condotte sopra descritte, facendo leva ora sulla mancata inclusione del commercio di infiorescenze per finalità ricreativa tra i fini perseguiti e tra le attività espressamente ammesse dalla normativa in parola, ora sulla esclusiva riferibilità della esimente all’agricoltore e non alle altre categorie soggettive della filiera.
Tra gli interventi maggiormente di interesse, la sentenza n. 12348 del 19 dicembre 2019 da parte della Corte di Cassazione – Sezioni Unite, che ha escluso la punibilità della condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti per uso personale, deducibile (anche) dalla minima dimensione dell’attività svolte in forma domestica, dalle rudimentali tecniche utilizzate, dallo scarso numero di piante e dal modesto quantitativo di prodotto ricavabile, oltre che dalla carenza di indicatori di inserimento nel mercato degli stupefacenti.
Su un tema di particolare rilievo, qualche mese prima, si era espressa ancora la Corte di Cassazione, III Sez. Pen., con la pronuncia n. 25559 del 10 giugno 2019, secondo cui la detenzione di stupefacenti di un quantitativo inferiore ai limiti tabellari non esclude di per sé la rilevanza penale della condotta, perché il superamento del limite è solo uno dei parametri normativi rilevanti ai fini dell’affermazione della responsabilità, e l’esclusione della destinazione della droga a uso strettamente personale può essere ritenuta dal giudice anche in forza di ulteriori circostanze dell’azione.
In relazione alla possibilità di poter inizializzare un’attività di rivendita di cannabis light è opportuno precisare che non sono necessarie particolari certificazioni o permessi specifici. È infatti possibile farlo allo stesso modo con cui si può aprire un bar, un negozio di alimentari, un negozio di telefonini, una tabaccheria, ecc.
Peraltro, ci sono anche questioni da considerare per mettere in piedi la suddetta attività:
- la cannabis e la marijuana light da commercializzare devono essere accompagnate da un apposito certificato di provenienza, che attesti luogo di origine e qualità dei semi utilizzati per la coltivazione. In particolare, le varietà di piante giudicate light sono quelle presenti nel Catalogo Comune dell’Unione Europea: si tratta di 67 specie diverse, tutte con un contenuto di THC che rispetti il dato normativo di cui alla L. n. 242/16;
- la cannabis light e la marijuana light devono anche avere un certificato di laboratorio, attestante i valori di tutte le principali sostanze che contengono. Tale documento deve sempre essere allegato alla vendita, sia quella all’ingrosso che quella al dettaglio;
- le confezioni di marijuana light devono avere delle informazioni anche relative al lotto di provenienza;
- tali confezioni devono anche essere sigillate e chiuse ermeticamente, sia che si tratti di quelle vendute singolarmente al dettaglio, e sia nel caso delle forniture all’ingrosso.
Pur ritenendo perfettamente lecita la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L., purchè derivante da coltivazioni effettuate nel rispetto della L. 242/2016 e privi di efficacia drogante, anche alla luce della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, risulterà consigliabile commercializzare prodotti con THC non superiore allo 0,2%.
Pare altresì opportuno, anche per agevolare eventuali controlli delle FF.OO., dotare ogni campione di una copia delle analisi di laboratorio, all’uopo effettuate, così da scongiurare il rischio di sequestri; si dovrà osservare, in sostanza, estrema attenzione e precisione nell’etichettatura, con particolare riferimento all’indicazione del lotto di provenienza, nonché alla corretta sigillatura della confezione.