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diffamazione

Il delitto di diffamazione trova il proprio fondamento nella necessità di garantire la reputazione dell’individuo, ovvero l’onore inteso in senso soggettivo, quale considerazione che il mondo esterno ha del soggetto stesso.
Il bene giuridico oggetto di tutela è la reputazione della persona offesa.

I presupposti del reato sono i seguenti:

  •  l’assenza dell’offeso, consistente nell’impossibilità che la persona offesa percepisca direttamente l’addebito diffamatorio. L’impossibilità di difendersi determina infatti una maggiore potenzialità offensiva rispetto alla mera ingiuria (ad oggi comunque depenalizzata).
  •  L’offesa alla reputazione, intendendosi la possibilità che l’uso di parole diffamatorie possano ledere la reputazione dell’offeso.
  •  La presenza di almeno due persone in grado di percepire le parole diffamatorie (esclusi il soggetto agente e la persona offesa). La giurisprudenza ritiene configurato il delitto in esame anche qualora l’offesa sia comunicata ad una persona sola, affinché questa, però, la comunichi ad altre.
Trattasi di reato di evento, che si consuma nel momento della percezione da parte del terzo delle parole diffamatorie.

La condotta è scriminata in caso di esercizio del diritto di cronaca, critica e satira, quando attuata nei limiti di verità, continenza e pertinenza.

Il reato di diffamazione punisce chi, comunicando con più persone, rechi volontariamente un’offesa alla reputazione di una persona assente.

Costituiscono requisiti essenziali, ai fini della configurazione della fattispecie in esame: l’offesa dell’altrui reputazione; l’impossibilità, per il soggetto passivo, di percepire fisicamente l’offesa arrecatagli; la presenza di almeno due persone.

Si deve, innanzitutto, precisare che per “reputazione” si intende la stima che gli altri hanno della sfera morale di una persona, nell’ambiente in cui essa vive, la quale riceve tutela dalla legge come interesse del soggetto alla sua conservazione e al suo rispetto da parte dei consociati.

La condotta tipica del delitto di diffamazione consiste, dunque, negli atti con cui l’agente comunichi, ad almeno due persone, l’offesa alla reputazione di un terzo. Tale comportamento può essere realizzato con qualsiasi mezzo e in qualunque modo, purché risulti idoneo a comunicare l’offesa alla reputazione altrui. L’agente può, pertanto, ricorrere, ad esempio, all’utilizzo di parole, scritti, disegni, pitture o fotografie.
La condotta criminosa può anche consistere in omissioni, purché se ne possa dimostrare l’intenzione delittuosa.
In ogni caso, per rilevare ai sensi della norma in esame, la condotta deve essere illegittima, ossia non giustificata dall’adempimento di un obbligo giuridico, né dall’esercizio di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo, né, ancora, dal consenso della persona che dovrebbe risultarne offesa.
Nel caso in cui l’agente realizzi più comunicazioni offensive ai danni di una stessa persona, esse si considerano come un unico reato qualora avvengano in un unico contesto d’azione, mentre concorrono nel caso in cui si verifichino in contesti diversi.

La condotta dell’agente si deve, altresì, realizzare, attraverso una comunicazione rivolta a più persone. Quest’ultima si considera idonea ad integrare il reato in esame qualora due o più persone, diverse dall’agente o dal suo concorrente, abbiano notizia dell’offesa, contemporaneamente o anche in momenti successivi.

Oggetto materiale del reato è la persona che risulti offesa dalla condotta del soggetto agente. Qualora le persone offese siano più di una, si considerano configurate più ipotesi di diffamazione in concorso tra loro.

L’evento tipico del reato di diffamazione è rappresentato dalla percezione dell’offesa da parte delle due o più persone a cui sia rivolta la comunicazione penalmente rilevante. A tal fine non è sufficiente né la mera esternazione senza percezione, come nel caso in cui essa sia rivolta ad una persona distratta, considerato che la comunicazione implica un rapporto bilaterale di dare e ricevere la notizia, né la mera percezione non accompagnata dalla comprensione del significato offensivo dell’addebito.
Considerato che l’offesa può essere comunicata ad almeno due persone sia contemporaneamente che in momenti successivi, il reato si considera consumato con la percezione dell’offesa da parte della seconda persona a cui sia stata comunicata.

Nella generalità dei casi non si ritiene ammissibile il tentativo di diffamazione. Tuttavia, in relazione a particolari modalità del fatto, esso si può configurare: si pensi, ad esempio, al caso dell’offesa che sia realizzata attraverso uno scritto indirizzato a più persone, il quale, però, non giunga a destinazione per ragioni indipendenti dalla volontà dell’agente.

È sufficiente che, in capo all’agente, sussista il dolo generico, considerato che la norma in esame non richiede alcun fine specifico, ma soltanto la coscienza e volontà dell’offesa e della sua comunicazione a due o più persone.

Affinché si possa considerare configurato il reato di diffamazione è, poi, necessario che la persona offesa sia nell’impossibilità di percepire fisicamente l’offesa a sé indirizzata. Tale circostanza si verifica, alternativamente, qualora la persona offesa sia assente, oppure nel caso in cui essa, seppur presente, non abbia percepito l’offesa.
Proprio il requisito dell’assenza della persona offesa differenzia il reato di diffamazione dalla fattispecie, ora depenalizzata, di ingiuria, la quale, ai sensi dell’abrogato art. 594 c.p., richiedeva la necessaria presenza della persona offesa.

I commi 2, 3 e 4 della norma in esame prevedono alcune circostanze aggravanti speciali a carattere oggettivo, riguardando le modalità del fatto o le qualità personali dell’offeso.
Ai sensi del comma 2, la diffamazione è, innanzitutto, aggravata, qualora l’agente attribuisca alla persona offesa un fatto determinato, ossia un fatto specificamente individuato nelle sue circostanze di tempo o di luogo, oppure nelle sue modalità essenziali.
Ai sensi del comma 3, invece, il reato è aggravato nel caso in cui la comunicazione sia realizzata attraverso il mezzo della stampa, con un altro mezzo di pubblicità, oppure con un atto pubblico. La diffamazione risulta, altresì, aggravata, ai sensi del comma 4, qualora l’offesa sia recata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, oppure ad una sua rappresentanza o ad un’Autorità costituita in collegio.

L’art. 598 c.p. prevede l’applicazione di una causa di esclusione della punibilità del fatto qualora le offese siano contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi ad un’Autorità amministrativa, qualora le offese concernano l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo. Il comma 2 della medesima norma prevede, tuttavia, che il giudice possa ordinare la soppressione o la cancellazione, in tutto o in parte, delle espressioni offensive, assegnando, altresì, alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.

Un’altra causa di esclusione della punibilità del fatto è, altresì, prevista dal secondo comma dell’art. 599 c.p., con riferimento al caso in cui l’offesa idonea ad integrare la diffamazione sia seguita ad una provocazione, ossia sia stata commessa nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, quale sua diretta conseguenza. “Ingiusto” è sia il fatto che risulti, di per sé, illecito, sia quello che venga compiuto in maniera antigiuridica. L’ingiustizia del fatto è il presupposto necessario per l’esclusione della punibilità.
Tale causa di esclusione della punibilità si considera applicabile anche nel caso in cui l’imputato non sia la persona verso cui sia stato diretto il fatto ingiusto, ben potendo, quest’ultimo, essere stato compiuto nei confronti di una persona a lui legata da un rapporto che giustifichi la solidarietà nel risentimento. Si considera ammissibile anche la provocazione putativa, purché l’erronea opinione sull’ingiustizia del fatto sia ragionevole e la reazione sia tempestiva.

L’art. 596 c.p., al comma 1, sancisce, in relazione al delitto di diffamazione, il principio dell’esclusione della prova liberatoria. Ciò comporta che chi si sia reso colpevole del reato di diffamazione, non possa provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa. La verità o la notorietà dei fatti offensivi, dunque, non escludono il reato di diffamazione, motivo per cui la relativa prova è inammissibile in quanto irrilevante. I commi 2 e 3 della medesima norma prevedono, però, alcune deroghe a tale principio, ammettendo, ad esempio, la prova della verità del fatto qualora la persona offesa sia un pubblico ufficiale e il fatto attribuitogli si riferisca all’esercizio delle sue funzioni.

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