31 Dic diritto all’oblio e riforma Cartabia
Il diritto all’oblio, riconosciuto per la prima volta dalla giurisprudenza europea nella causa Google Spain SL, Google Inc. vs. AEPD, Mario Costeja Gonzále (causa C-131/12), è il diritto ad ottenere l’eliminazione dei dati personali da parte del cd. intermediario (es. motore di ricerca), qualora l’interessato li ritenga lesivi per la propria reputazione. L’attività di mera diffusione delle notizie operata dall’intermediario, cd. indicizzazione, consente alla collettività di ottenere un aggiornamento costante senza che debba essere effettuato un controllo sul contenuto delle stesse, pertanto, l’art. 17 Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR) elenca i motivi, precisati dalla giurisprudenza, per i quali l’interessato ha il diritto di ottenere dall’intermediario la cd. deindicizzazione, ossia la rimozione delle informazioni oggetto della richiesta (es. l’insussistenza di un interesse pubblico specifico ed attuale alla diffusione della notizia o il decorso di un significativo lasso di tempo dai fatti che renda l’informazione irrilevante). La tutela nazionale del diritto in oggetto, attualmente, è conseguibile mediante diversi ed automi rimedi civilistici, di natura inibitoria e risarcitoria. Tra i primi, rientra il processo di deindicizzazione che permette di dissociare un nominativo da determinati risultati di ricerca o da alcune parole chiave connesse allo stesso, per evitare di essere associati facilmente a notizie lesive della propria immagine, trovando la sua ratio nel diritto alla riservatezza ex art. 2 Cost. Qualora un soggetto ritenga di avere diritto alla deindicizzazione, può inviare un’istanza direttamente all’intermediario e, in caso di inottemperanza della richiesta, successivamente, lo stesso potrà proporre reclamo all’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali (c.d. Garante della Privacy), ex art. 140 bis del Codice della Privacy e art 77 GDPR; da ultimo, potrà ricorrere all’Autorità Giudiziaria avverso la decisione dell’autorità di controllo, ex art. 78 GDPR. Tuttavia, il diritto all’oblio non ha carattere assoluto: richiede un bilanciamento da parte del giudice di merito per valutare l’effettiva preminenza, nel caso concreto, dell’interesse alla riservatezza e all’identità personale dell’individuo ex art. 2 Cost., rispetto alla libertà di informazione ex art. 21 Cost. Infatti, l’art. 2 della Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’individuo che, in relazione alla tutela dell’oblio, si riferiscono al diritto all’integrità morale, alla reputazione e al diritto all’immagine, mentre l’art. 21 Cost. sancisce la libera manifestazione del pensiero per mezzo della libertà di informazione, di stampa e di cronaca. Perciò, è necessaria una valutazione giudiziale concreta caso per caso, essendo inammissibile predeterminare una gerarchia assoluta a priori riguardo la preminenza di uno dei due diritti costituzionali, in ordine alla deindicizzazione. Diversamente dalla vigente tutela civilistica, i criteri attraverso cui la riforma penale in oggetto delega al Governo la modifica dell’istituto sulla comunicazione della sentenza, di cui al D.lgs. 271/1989, sembrerebbe delineare un perimetro entro il quale il diritto all’oblio debba essere tutelato in termini assoluti, rispetto alla divulgazione delle informazioni di carattere giudiziario. Infatti, l’indagato/imputato avrebbe diritto alla cancellazione delle notizie diffuse dall’intermediario qualora il procedimento penale si sia concluso in suo favore e nei casi in cui vi sia stata l’emanazione di un provvedimento di deindicizzazione, non dovendo sottostare al bilanciamento giudiziale. Tale provvedimento, infatti, costituisce il titolo mediante il quale ottenere l’effettiva deindicizzazione qualora la vicenda giudiziaria si sia conclusa con decreto di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione. Pertanto, in mancanza del provvedimento di deindicizzazione l’interessato dovrà ricorrere al comune procedimento, richiedendo all’intermediario la deindicizzazione dei contenuti relativi a procedimenti penali o condanne, con riferimento ai presupposti richiesti dall’art. 17 GDPR. Diritto di cronaca e diritto all’oblio nel processo penale. La deindicizzazione limita, pertanto, gli effetti pregiudizievoli del costante richiamo ad una notizia che, seppur legittimamente diffusa in origine, non è più giustificata da ragioni di pubblica utilità ed incide negativamente sulla personalità del soggetto interessato. La natura pubblicistica del processo penale determina una diffusione incessante e continua delle notizie di cronaca riguardanti i soggetti coinvolti, ponendo alcune perplessità sugli archivi giornalistici digitalizzati e fruibili direttamente on line. Sempre in riferimento all’art. 21 Cost., la disciplina processuale penale esige il bilanciamento fra del diritto all’oblio e il diritto di cronaca essendo, quest’ultimo, un diritto pubblico soggettivo posto a tutela dell’informazione pubblica e corollario della libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuto pacificamente da dottrina e giurisprudenza come diritto alla divulgazione dei fatti di pubblico interesse. Tuttavia, per poter entrare nell’alveo del diritto di cronaca, la notizia deve osservare le condizioni della verità, della pertinenza e della continenza, così come elaborati dalla Corte di legittimità. Infatti, riguardo la pubblicazione delle notizie, i presupposti per la tutela effettiva delle stesse riguardano, essenzialmente, la verità oggettiva, l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto e la forma civile dell’esposizione, dovendo essere rispettosa della dignità della persona (cd. decalogo del giornalista). La Suprema Corte ha affermato che il diritto all’oblio può essere recessivo, rispetto al diritto di cronaca, solo in presenza di alcuni elementi del contenuto informativo, come un dibattito di interesse pubblico che ne giustifichi la diffusione in modo effettivo ed attuale o la grande notorietà del soggetto rappresentato (Cass. Civ.,I sez, Ord. 20 marzo 2018, n. 6919). Altresì, la Corte osserva come “al venir meno dell’attualità della notizia e dell’utilità sociale della prima pubblicazione, si accompagna il vincente rilievo che lo scorrere del tempo modifica la personalità dell’individuo e la ripubblicazione di una notizia già divulgata in un lontano passato può avvalorare una immagine della persona diversa da quella al momento esistente, con lesione della identità personale e della reputazione che alla nuova immagine si accompagna. Il diritto ad essere dimenticati (right to be forgotten) per i menzionati contenuti consiste, pertanto, nel diritto a non rimanere esposti, senza limiti di tempo, ad una rappresentazione non più attuale della propria persona, con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza […] Come rilevato da attenta dottrina, accade così che il fatto, completamente acquisito dalla collettività, dopo aver perduto la connotazione pubblica, nell’intervenuto decorso del tempo, con il trascolorare dell’interesse alla sua conoscenza diventa privato e, là dove riproposto, apre lo spazio ai riconoscimento del diritto all’oblio […] (Cass. Civ., Sez. I, ord. 18 febbraio-19 maggio 2020, n. 9147). Ciò detto, in merito alle notizie sui procedimenti penali, le Sezioni Unite Civili illustrano che “la corretta premessa dalla quale bisogna muovere è che quando un giornalista pubblica di nuovo, a distanza di un lungo periodo di tempo, una notizia già pubblicata – la quale, all’epoca, rivestiva un interesse pubblico – egli non sta esercitando il diritto di cronaca, quanto il diritto alla rievocazione storica (storiografica) di quei fatti. […] si tratta di un diritto avente ad oggetto il racconto, con la stampa o altri mezzi di diffusione, di un qualcosa che attiene a quel tempo ed è, perciò, collegato con un determinato contesto. Ciò non esclude, naturalmente, che in relazione ad un evento del passato possano intervenire elementi nuovi tali per cui la notizia ritorni di attualità, di modo che diffonderla nel momento presente rappresenti ancora una manifestazione del diritto di cronaca (in tal senso già la citata sentenza n. 3679 del 1998); in assenza di questi elementi, però, tornare a diffondere una notizia del passato, anche se di sicura importanza in allora, costituisce esplicazione di un’attività storiografica che non può godere della stessa garanzia costituzionale che è prevista per il diritto di cronaca. […] L’attività storiografica, intesa appunto come rievocazione di fatti ed eventi che hanno segnato la vita di una collettività, fa parte della storia di un popolo, ne rappresenta l’anima ed è, perciò, un’attività preziosa. Ma proprio perché essa è “storia”, non può essere considerata “cronaca” […]”. (Cass. Civ., SS.UU., sent. n.19681/2019) Pertanto, secondo la Corte, il giudice di merito è tenuto a verificare se sussista o meno un interesse qualificato alla diffusione della notizia con riferimenti precisi alla persona che di quella vicenda fu protagonista in passato, l’identificazione personale potrebbe divenire irrilevante per i destinatari dell’informazione stessa: il diritto ad informare sussiste anche rispetto a fatti molto lontani ma non equivale in automatico al diritto alla nuova e ripetuta diffusione dei dati personali. L’indicizzazione, perciò, è un’attività distinta dalla creazione dei contenuti informativi ossia dalla pubblicazione che è sua volta distinta dalla ripubblicazione degli stessi ossia dalla rievocazione storica di quel fatto: ciascuna di tali attività configura un autonomo trattamento di dati, pertanto, l’aggiornamento di una notizia può essere chiesto unicamente al sito sorgente, mentre al motore di ricerca può essere richiesta la sola deindicizzazione. Si tratta sostanzialmente di un’integrazione all’art. 154-ter delle disposizioni attuative del codice di procedura penale; nel prevedere che i decreti di archiviazione, le sentenze di non luogo a procedere e le sentenze di assoluzione vengano trasmessi al Garante per la protezione dei dati personali e che queste «costituiscano titolo per l’emissione senza indugio di un provvedimento di deindicizzazione dalla rete internet dei contenuti relativi al procedimento penale contenenti i dati personali degli indagati o imputati», si tutela il soggetto nei confronti del quale è stato pronunciato decreto di archiviazione, sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione, limitando l’attività dell’intermediario ma lasciando al contempo impregiudicata la facoltà di editori e responsabili di testate giornalistiche di pubblicare, conservare e ripubblicare a distanza di tempo le notizie relative ad un procedimento penale. Mentre, la regolamentazione delle dichiarazioni delle autorità pubbliche, vieta agli stessi di indicare pubblicamente come colpevole l’indagato o l’imputato, fino alla sentenza di condanna o decreto penale di condanna irrevocabili, a pena della rettifica della dichiarazione resa, nonché l’applicazione di eventuali sanzioni penali, risarcitorie e disciplinari. In altri termini, ogni persona che uscirà indenne da una vicenda giudiziaria potrà richiedere, in base al provvedimento del giudice, che i propri dati non compaiano più sui motori di ricerca. Abbiamo già detto che finora, il diritto all’oblio poteva essere ottenuto soltanto tramite una procedura piuttosto farraginosa, che iniziava con una domanda di deindicizzazione a Google – spesso respinta – e proseguiva poi con il ricorso al Garante o all’autorità giudiziaria. Inoltre, l’istanza dell’interessato veniva decisa caso per caso e sulla base di un bilanciamento continuo tra diritto all’oblio e diritto di cronaca. Con la riforma, invece, è come se tale equilibrio fosse stato – limitatamente all’ipotesi considerata – prestabilito in via generale per tutti i casi in cui un soggetto esca totalmente indenne da un procedimento penale a suo carico. Il riconoscimento del diritto alla deindicizzazione è quindi previsto come obbligo espresso, sottraendo agli organi competenti qualsiasi margine di discrezionalità. Questo perché il protrarsi delle vicende giudiziarie è sicuramente un peso gravoso per un soggetto nei confronti del quale viene emessa sentenza d’assoluzione ma lo è anche per colui che, risultato colpevole e scontata la condanna, cerca di reinserirsi in società con la speranza di poter godere degli effetti della funzione rieducativa della pena. Nel caso dell’assoluzione, però, la questione assume una valenza in parte diversa, ma soprattutto una portata incalcolabile a livello di pericolosità sociale. Questo per un motivo molto semplice: chiunque può essere oggetto di indagine o di procedimento penale. È infatti sufficiente un’accusa particolarmente grave, come la commissione di un reato procedibile d’ufficio che tocca valori cari all’opinione pubblica, perché il soggetto si trovi coinvolto in una spirale mediatica accusatoria quotidiana. Chiaramente, le autorità competenti hanno il diritto di indagare ed accertare i fatti, ma allo stesso tempo è anche necessario ribadire i principi costituzionali, su tutti la presunzione di innocenza e la dignità umana. Quando poi la non colpevolezza viene accertata, diventa indispensabile predisporre tutte le condizioni affinché il soggetto possa proseguire la propria vita, al di là di qualunque valutazione personale sulla vicenda. L’introduzione del diritto all’oblio mediante il riconoscimento di un obbligo di deindicizzazione delle informazioni personali dopo essere uscito indenne da un procedimento penale è quindi una novità positiva non solo per la tutela della privacy, ma per il sistema giustizia in generale perché permette ad una persona di riappropriarsi della propria identità al di fuori delle aule, mediatiche e non.