21 Dic esame, contro-esame e riesame
L’impianto del Codice Vassalli consegna alle parti potenti leve nel fertile terreno del governo della prova penale oralmente resa (c.d. processo di parti), di cui è cospicua espressione il c.d. esame incrociato che nel settore della prova dichiarativa rappresenta il Novum organum (l’oralità, così, assume la veste dell’élenchos, di cui si è individuata la matrice socratica). Quelle, in posizione anairenica secondo lo schema dell’adversary sistem, in aula conducono una “inchiesta istruttoria “su base dialettica e maieutica in perfetto stile accusatorio (che sposta l’istruzione nel pubblico giudizio, assicurando i valori dell’immediatezza e del contraddittorio) e mirano, specialmente, alla discovery dell’agnizione, cristallizzandola quando è accertata nei verbali d’udienza (il dibattimento sta al processo come l’“inchiesta istruttoria” sta alla prova). L’opera poietica della c.d. cross examination (definita un’arte) – che, pendente la regiudicanda, all’imputato seve a non rendere irriducibile l’accusa, piuttosto oralmente falsificabile – non nasce ex abrupto ma quale prospettiva contenziosa che trova la sua solida radice nella periferia del predibattimento quando le parti predispongono ed elaborano le liste, scritte e a carattere ostensivo per evitare, nella parabola, le cc.dd. prove a sorpresa. Nel telaio del c.d. controesame, nel ventaglio delle domande suggestive, si porta avanti banco iudicis e mette in evidenza la “falsificabilità” dell’accusa che del controesame costituisce l’imprinting, del sapere giudiziario, che, in tal modo, si innesta in un capisaldo euristico del moderno pensiero scientifico (Popper).
Ogni considerazione sulla figura del difensore nell’esame testimoniale deve necessariamente muovere dall’analisi del sistema procedimentale in cui si inserisce tale mezzo di prova; ciò in quanto, nella disciplina dell’esame del testimone in dibattimento si condensano molti degli obiettivi e dei principi originariamente perseguiti dal Codice Vassalli del 1988, fondato sul modello accusatorio. E’ imposto cioè di avere riferimento al metodo del contraddittorio nella formazione della prova, cardine del modello accusatorio, fondato sul rilievo che la dialettica, intesa come scontro di tesi contrapposte, sia lo strumento migliore per arrivare alla ricostruzione del fatto. Nel contraddittorio in senso oggettivo, per la prova, sancito dalla prima parte del comma 4 dell’art. 111 Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, la dialettica si manifesta nell’escussione della fonte di prova attraverso l’esame incrociato.
Tale passaggio è essenziale, pure se il Codice di Procedura Penale attuale non è quello originario, di impostazione accusatoria e garantista, ma – sia consentito il riferimento al pensiero del Prof. Giorgio Spangher, pure espresso in una recentissima intervista doppia con il Prof. Paolo Ferrua – sia stato in un certo senso stravolto da una svolta inquisitoria, a partire dalle sentenze della Corte Costituzionale nn. 254 e 255 del 1992 e dalle modiche legislative di matrice emergenziale dello stesso anno, correlate alla stagione del più aspro contrasto al fenomeno della criminalità organizzata, in particolare mafiosa. Si sia assistito, in altri termini, ad una progressiva erosione delle connotazioni accusatorie del nuovo modello processuale: si pensi, ad esempio, al c.d. doppio binario previsto per i reati in materia di criminalità organizzata, ai casi di limitazione del diritto ad ottenere l’ammissione della prova di tipo dichiarativo, correlati a particolari imputazioni e ipotesi, di cui all’art. 190 bis c.p.p.
Al di là delle definizioni di sistema (oggi per lo più indicato come tendenzialmente accusatorio o accusatorio temperato), se anche, dunque, ci troviamo davanti ad uno iato tra un modello che si poteva sperare e che ci troviamo ora a gestire, anche nella esperienza concreta dei Tribunali, non vi è dubbio che in via generale la struttura dell’esame dibattimentale del testimone, imperniata sull’esame incrociato, sia stata fondata su una scelta di principio, che connota profondamente il modello accusatorio: l’adesione al principio dialettico.
Il principio rappresenta il superamento di quello opposto di autorità e, secondo definizione tradizionale, prende atto dei limiti della natura umana ritenendo che nessuna persona sia depositaria del vero e del giusto; la verità si può accertare tanto meglio quanto più le funzioni processuali siano ripartite tra soggetti con interessi antagonisti, al giudice, indipendente e imparziale, spetta di decidere sulla base delle prove prodotte dalle parti, lo scontro tra le tesi sostenute da ciascun interlocutore è una tecnica che consente di valutare la fondatezza degli argomenti che le sorreggono e costituisce il metodo per avvicinarsi alla verità. Il contraddittorio nella formazione della prova, quale tecnica di accertamento dei fatti, tende a far sì che ciascuna delle parti possa contribuire alla formazione della prova ponendo le domande al testimone.
L’esame incrociato, quale miglior strumento per conoscere la verità di derivazione anglosassone, costituisce massima espressione della dialettica tra le parti in conflitto: il suo scopo è quello di consentire alle stesse, sotto il penetrante controllo del giudice, di trarre dalla fonte di prova tutto quanto essa può dare, svelandone al tempo stesso il grado di attendibilità, mediante la immediata verifica delle parti contrapposte. La ratio del mezzo di prova segna la ragion d’essere delle regole che presiedono all’esame incrociato, che riguardano sia il modo di rivolgere le domande che il modo di rispondere alle stesse e presiedono ai tre momenti dell’esame diretto, del controesame e del riesame, avendo sempre di mira la genuinità della prova.
Viene, in sintesi e nella sostanza, delineato un sistema che prevede un esame dibattimentale che non può essere sottoposto a interruzioni e che muove dall’esame diretto, condotto dalla parte che ha chiesto di interrogare il testimone. L’esame diretto tende ad ottenere la manifestazione dei fatti conosciuti dal testimone, che dovrebbero essere utili a dimostrare la tesi di colui che lo ha chiamato a deporre; sono vietate le domande suggestive, che tendono a suggerire le risposte, in modo da evitare che chi induce un teste a prova possa anche suggerirgli le risposte, in modo da manipolare a suo piacimento la genuinità della prova. Il controesame, condotto dalla parte che ha un interesse contrario a quello della parte che ha chiesto l’esame, è eventuale e può avvenire sia sui fatti che sulla credibilità del testimone, tendendo nel primo caso a far dichiarare al testimone un fatto diverso e contrario o comunque alternativo rispetto a quello esposto nell’esame diretto e nel secondo caso a fargli dichiarare fatti che dimostrano la sua non credibilità. Nel controesame sono ammesse le domande-suggerimento (per la precisione, sono consentite tali domande alla parte che ha un interesse differente da quello che ha chiesto la citazione del testimone): il loro scopo è sia quello di contrastare la ricostruzione precedentemente resa dal testimone che di saggiare la sua attendibilità. Con ciò si dà attuazione al principio secondo cui la prova capace di resistere alle suggestioni è quella che più si accredita. Il riesame, doppiamente eventuale, è condotto dalla persona che ha chiesto l’assunzione della testimonianza, avviene soltanto nell’ipotesi in cui si sia svolto il controesame e in cui la parte che ha svolto l’esame diretto intenda procedervi. Come intuibile, il riesame tende a corroborare la validità della dichiarazione inizialmente resa, sia sotto il profilo della ricostruzione del fatto che sotto quello attinente alla credibilità del testimone.
Al termine della sequenza esame diretto/controesame/riesame, il giudice può porre domande al testimone: è evidente che una differente collocazione temporale di tale intervento ne altererebbe la logica e la finalità e potrebbe nella prassi condizionare la linea seguita dalle parti. Dopo le domande rivolte dal giudice, le parti hanno diritto a concludere l’esame secondo l’ordine innanzi descritto. Durante lo svolgimento dell’esame, le altre parti hanno la possibilità di formulare opposizioni inerenti alla correttezza dello svolgimento del mezzo di prova, sulle quali il giudice decide immediatamente e senza formalità. Rientrano nell’ambito applicativo della previsione di cui all’art. 504 c.p.p., tutte le questioni attinenti alla inosservanza di una delle prescrizioni normative che governano l’elaborazione della prova orale e che ne garantiscono la corretta formazione. Vi è poi una dettagliata disciplina di carattere generale che garantisce la corretta formazione della prova, improntata al canone della pubblicità (con alcune eccezioni), definendo oggetto e limiti della testimonianza (ad esempio prevedendo che le domande debbano avere riferimento a fatti specifici, escludendo le domande nocive, disciplinando il regime delle contestazioni). Al giudice viene demandato il controllo di legalità, che può essere sollecitato dalle parti proprio mediante le opposizioni: l’organo giudicante è in altri termini chiamato a garantire unità, continuità e immediatezza dell’esame incrociato, dovendo intervenire allo scopo di assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni.
In via ulteriore, la funzione di garanzia dei principi di uguaglianza, legalità e obbligatorietà dell’azione penale e dello stesso diritto di difesa – secondo quanto sostenuto dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 111 del 1993 – fa sì che, ai sensi dell’art. 506 c.p.p., il giudice possa indicare alle parti temi di prova nuovi o più ampi, utili per la completezza dell’esame, e rivolgere domande ai testimoni e, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova. Il limite all’attività del giudice è che egli, sempre e in ogni caso, a mezzo dei suoi interventi non si sostituisca alle parti nella conduzione dell’esame e non superi il principio dispositivo ex art. 190 c.p.p.
I tratti dell’esame incrociato appena descritti – e prima ancora il modello processuale cui il legislatore ha avuto riferimento nel definirne la disciplina e il principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova – consentono di affrontare il tema del ruolo del difensore e quello, correlato, del rispetto delle garanzie difensive: al di là delle prerogative defensionali in senso stretto (espletate nello svolgimento dell’esame diretto, del controesame o del riesame), non vi è dubbio che il difensore possa primariamente garantire i diritti del proprio assistito mediante il ferreo controllo delle regole che presiedono all’esame del testimone, che, se superate, alterano la genuinità del risultato probatorio. Al difensore, può dirsi, spetta il potere (rectius, il dovere) di monitorare la legalità dell’esame e di richiedere l’attivazione del controllo di legalità demandato al giudice o pretendere che quest’ultimo impronti a legalità il procedimento probatorio. Il Codice, come accennato, riserva al difensore lo strumento di intervento dell’opposizione; l’inutilizzabilità è la conseguenza prevista in via generale dall’art. 526, comma 1, c.p.p. per le prove diverse da quelle acquisite legittimamente nel dibattimento.
Si pone, tuttavia, un problema pratico, che comporta la valutazione della tensione cui sono esposti i principi e le norme di matrice costituzionale e codicistica nel concreto e la conseguente presa di coscienza del loro svilimento nella prassi mediante modi di agire invalsi nelle aule di giustizia che da essi si discostano. Il tema è strettamente legato a quello relativo all’esistenza di tendenze giurisprudenziali devianti, di interpretazioni creative che praticano una lettura fortemente riduttiva delle garanzie, che assecondano dette prassi, ponendosi il fine di imporre come diritto vivente distorsioni pratiche comunemente diffuse. In questa dimensione, possono individuarsi, a titolo non esaustivo, quali prassi devianti, in alcuni casi assecondate dalle tendenze giurisprudenziali degenerative anzidette, che si pongono in tensione con i principi e le regole cui si è fatto prima riferimento: a. una certa attitudine, diffusa nei tribunali, a sollecitare le parti ad acconsentire, essenzialmente in base ad esigenze pratiche, alla inversione dell’ordine probatorio, ossia alla modifica dell’ordine legale dei turni; b. la proposizione, da parte del giudice, di domande suggestive al testimone (avallata da una parte della giurisprudenza di legittimità); c. la prassi seguita da alcuni giudici di condurre in senso proprio l’esame diretto del testimone; d. l’ammissione, a norma dell’art. 507 c.p.p., di nuovi mezzi prova, tra i quali appunto la testimonianza, prima che sia terminata l’acquisizione delle prove; e. la corrente propensione a snaturare le contestazioni, chiedendo al testimone la semplice conferma della dichiarazione precedentemente resa a seguito di sua lettura. a. Le pressioni rivolte ai difensori, da parte dell’organo giudicante, al fine di acconsentire alla modifica dell’ordine di assunzione delle prove, su cui possono liberamente concordare ai sensi del secondo comma dell’art. 496 c.p.p., contrastano, ad iniziare, con il principio di non colpevolezza ex art. 27 Cost.: gravando l’onere della prova sul pubblico ministero, costui è chiamato a dare dimostrazione dell’ipotesi descritta dal capo di imputazione, chiamando i testimoni a sostegno; specularmente, il diritto riconosciuto all’imputato di difendersi provando gli consente di assumere le prove per ultimo, in relazione a quanto acquisito a suo carico.
Tale passaggio è intimamente connesso all’essenza del metodo dialettico e, dunque, del sistema processuale di riferimento: l’iniziale disinformazione del giudice sui fatti oggetto del processo, l’inesistenza di una sua conoscenza precostituita e di convincimento circa la responsabilità dell’imputato prima del dibattimento, impone che questi accerti la verità mediante la sintesi di tesi e antitesi illustrate dalle parti sulla base dei risultati di prova elaborati in via corrispondente, mediante il “movimento dialettico” basato sulla sequenza esame diretto/controesame/riesame. Al fine di conferire effettività al principio di non colpevolezza e al diritto di difesa, in altri termini, è necessario che, a fronte del vuoto conoscitivo iniziale del giudice, terzo ed estraneo alla contesa, la pubblica accusa dimostri l’ipotesi accusatoria, assolvendo l’onere su di essa incombente, mediante un metodo che garantisca la correttezza, in termini di genuinità, del risultato di prova. Ciò rappresenta il netto superamento del sistema delineato dal Codice di Procedura Penale del 1930, in cui, non a caso, il giudice, che poteva scegliere liberamente l’ordine in cui ascoltare i testimoni, si trovava in una situazione di oggettiva prevenzione, conoscendo gli atti prima del dibattimento, e l’istruttoria dibattimentale iniziava con l’interrogatorio dell’imputato, chiamato a discolparsi, a “purgare gli indizi”, secondo un’espressione ricorrente nel lessico inquisitorio. L’ordine legale di assunzione delle prove corrisponde, d’altro canto, alla gnoseologia del processo di parti, che presuppone ipotesi da dimostrare secondo le scansioni affermazione/falsificazione, quindi in generale prova/controprova e prova a carico/prova a discarico.