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infedeltà patrimoniale dell’amministratore

 

L’art. 2634 c.c. prevede la fattispecie penale dell’infedeltà patrimoniale e recita: Gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno patrimoniale.

In ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo.

Per i delitti previsti dal primo e secondo comma si procede a querela della persona offesa.

Particolarmente controverso appare, poi, il rapporto tra infedeltà patrimoniale ed appropriazione indebita, cui la giurisprudenza ricorreva al fine di poter punire le condotte inquadrate oggi, dopo la riforma (d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61), nel delitto di cui all’art. 2634 c.c.. Le due condotte sono in rapporto di reciprocità, appartenendo entrambe alla generale categoria delle condotte distrattive, ma, mentre l’infedeltà patrimoniale, traducendosi in un abuso di gestione dei beni sociali, si caratterizza per un uso arbitrario del bene che viene impiegato per fini diversi da quello cui era destinato, nell’appropriazione indebita di beni sociali, l’amministratore si comporta verso il bene come se fosse proprio, sottraendolo alla società in maniera irreversibile e definitiva, espropriando, cioè, la società del bene.

La giurisprudenza è intervenuta più volte sui rapporti tra le due fattispecie.

Con la prima sentenza del 7 ottobre 2003, la Cassazione ha stabilito che l’art. 2634 c.c. disciplina sia situazioni di conflitto d’interessi, sia condotte non tipizzate di abuso di gestione, puntualizzando che l’infedeltà patrimoniale è lex specialis rispetto all’appropriazione indebita (art. 646 c.p.), ossia in rapporto di specialità unilaterale, presentando una serie di elementi specializzanti quali il conflitto d’interessi, gli atti di disposizione dei beni sociali, oltre all’intenzionalità della condotta. Nelle successive sentenze, la Suprema Corte, ha chiarito che il reato di appropriazione indebita può trovare ancora applicazione nell’ambito societario, quando gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori si siano resi responsabili di atti di aggressione al patrimonio sociale, evidenziando che «l’intento del legislatore sia quello di punire […] l’eccesso di potere per sviamento», mentre nell’appropriazione indebita l’agente pone in essere atti di aggressione del patrimonio, appropriandosi del denaro o della cosa mobile dell’ente, di cui abbia la disponibilità in ragione della carica.

Nel reato di infedeltà patrimoniale, in particolare, sono diversi i soggetti, trattandosi di reato proprio, ma soprattutto sono i requisiti che la caratterizzano, quali il conflitto d’interessi, gli atti di disposizione dei beni sociali da cui deve scaturire un danno patrimoniale alla società, l’intenzionalità del danno patrimoniale, il dolo specifico che, oltre l’ingiusto profitto, ricomprende anche qualsiasi altro vantaggio, che la rendono ontologicamente diversa dall’appropriazione indebita.

Comunque sia, che si voglia ritenere che tra le due fattispecie esista una relazione di specialità unilaterale o, viceversa, un rapporto di specialità reciproca, non v’è dubbio che le due figure sono ontologicamente e concettualmente diverse e trovano applicazione in contesti diversi e differenziati. Infatti, come rileva la Cassazione, l’appropriazione indebita si traduce in atti di aggressione del patrimonio sociale, con cui l’amministratore si appropria di denaro o di cose mobili di cui ha la disponibilità in ragione della carica, l’infedeltà patrimoniale si riferisce ad atti di abuso di gestione in cui il bene sociale, a seguito di atti di disposizione da parte dell’amministratore, subisce una destinazione diversa da quelli che sono i suoi fini istituzionali.

«Il delitto d’infedeltà è configurabile, allorquando l’amministratore, per perseguire una finalità di profitto per sé o per altri ai danni della società, si avvalga degli schemi negoziali tipici della gestione d’impresa: acquisto e vendita di beni, pagamenti o forniture di prestazioni. E’ invece integrato il fatto tipico appropriativo nell’ipotesi in cui l’amministratore, muovendosi al di fuori dell’attività negoziale, realizzi un arricchimento personale o di terzi, mediante l’arbitraria acquisizione dei beni sociali. In tali circostanze l’amministratore si avvale della posizione funzionale rivestita per realizzare ai danni della società, il comportamento uti dominus, proprio come un qualsiasi soggetto attivo dell’appropriazione indebita».