22 Giu omicidio colposo del datore di lavoro
Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro è punito con la reclusione da due a sette ann (art. 589, co. 2, c.p.)”.
Il bene giuridico tutelato dalla norma è la vita e l’incolumità fisica delle persone. Per la configurabilità dell’elemento soggettivo è opportuno richiamare l’art. 43 c.p. rubricato “Elemento soggettivo del reato” che recita: “è colposo, o contro l’intenzione, il reato, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. Due condizioni dunque sono necessarie ai fini della configurabilità della fattispecie incriminatrice in premessa: la violazione delle cautele al fine di impedire la messa in pericolo di determinati beni giuridici considerati rilevanti dal legislatore e la morte di una persona come conseguenza non voluta dall’indagato/imputato. Invero, l’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 589 rappresenta una ipotesi aggravata con conseguente aumento della pena prevista della fattispecie generale, poiché il datore di lavoro o altri cui vengono specificamente assegnati gli obblighi prevenzionistici rivestono una posizione di garanzia nei confronti del lavoratore, avendo l’onere di adottare tutti gli strumenti idonei a “garantire la sicurezza dei dipendenti”.
La condotta tipica consiste nel comportamento del soggetto che contravvenga alle doverose cautele agendo con negligenza, imprudenza o imperizia, oppure violando leggi, regolamenti, ordini o discipline.
In particolare, si ha “negligenza” qualora l’agente compia una certa attività senza prestare la dovuta attenzione. Si parla, invece, di “imprudenza” nel caso in cui il soggetto attivo tenga una condotta contraria ai generali doveri di prudenza ed accortezza. Si può, infine, parlare di “imperizia” qualora un soggetto tenga una condotta che presupponga la conoscenza di determinate regole tecniche le quali, però, non vengano da lui rispettate, per sua incapacità oppure per sua inettitudine tecnica o professionale.
Il reato è procedibile d’ufficio e la competenza è del Tribunale monocratico.
Ai fini dell’accertamento di responsabilità è importante definire il concetto di “garante” anche alla luce delle realtà imprenditoriali complesse. Quando parliamo di posizioni di garanzia conseguenti a delitti di cui allo studio in premessa, ci riferiamo a quei soggetti che possono considerarsi sia potenziali offensori dei beni giuridici tutelati, ossia la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro, sia principali garanti della protezione degli stessi, in ragione dell’esercizio di poteri di controllo delle fonti di rischio e di poteri impeditivi degli eventi lesivi che avvengono nel corso dell’espletamento della prestazione lavorativa. Tali poteri sono meglio esplicati dall’art. 40 comma 2 c.p., ai sensi del quale “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. I reati commissivi mediante omissione, che a noi maggiormente interessano, sono caratterizzati proprio da uno specifico ruolo che il soggetto ha nei confronti della persona offesa. A tal proposito bisogna altresì distinguere tra posizione di controllo e posizione di protezione. In particolare, le posizioni di controllo sono quelle riferite al controllo di una fonte di pericolo e presuppongono in capo al garante l’esistenza di una posizione di dominio sull’oggetto del controllo, mentre le posizioni di protezione presuppongono l’affidamento al garante del compito di tutelare determinati beni da pericoli esterni. I soggetti che assumono posizione di garanzia, sia essa di controllo o di protezione sui luoghi di lavoro sono non solo: il datore di lavoro, il dirigente, il preposto, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), il medico competente, il lavoratore, ma anche soggetti esterni all’organigramma aziendale, quali per esempio, i progettisti, i fabbricanti, i fornitori e gli installatori.
Allorquando le realtà aziendali prevedono deleghe che trasferiscono poteri e doveri circa la sicurezza sul lavoro, per ragioni di efficienza ed organizzazione, si possono verificare in sede processuale difficoltà nell’accertamento delle relative responsabilità. Molto spesso il datore di lavoro, infatti, nomina per segmenti di operazioni contrattuali, un Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione per gestire e coordinare le attività del servizio di prevenzione e protezione dai rischi previste dal dettato normativo del D.Lgs. 81/2008 e per le quali è prevista una specifica competenza tecnica. In particolare, l’art. 33 del decreto ut supra citato, sebbene non chiarisca le responsabilità del RSSP, definisce le aree di suo interesse. Infatti, lo stesso deve individuare i fattori di rischio, procedere ad una loro attenta valutazione, individuare le misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro; elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali; proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori; fornire ai lavoratori informazioni sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività dell’impresa. Il RSSP, sebbene non espressamente previsto dalla norma, nell’espletamento della sua attività, deve agire con una certa autonomia proprio in virtù delle specifiche qualità tecniche di cui è titolare. Ed è proprio l’autonomia del suo ufficio che gli impone di dissuadere il datore di lavoro da scelte aziendali che possano mettere in pericolo la sicurezza dei lavoratori e dei terzi e che se carente, lo rendono imputabile in un processo penale. Infatti il RSPP risponderà, insieme al datore di lavoro, per il verificarsi di un infortunio ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare. Avremo dunque, al verificarsi di uno schema tipico di reato, un concorso di responsabilità del datore di lavoro che resta titolare della posizione di garanzia in via generale in quanto esercita poteri decisionali e di spesa dell’organizzazione aziendale o dell’unità produttiva e del RSSP che ha una posizione di controllo e di protezione in caso di infortunio sul lavoro.
Per ovviare al vuoto normativo e limitare l’esclusione di responsabilità da parte di soggetti distinti dal datore di lavoro, ma che con lo stesso concorrono alle scelte imprenditoriali seppur circoscritte a singole ipotesi contrattuali, l’organo giudicante si vede costretto, il più delle volte, ad adottare, nella ricostruzione del fatto tipico e nella pronuncia dibattimentale, soprattutto per i reati omissivi, un criterio interpretativo deduttivo, affidando al coefficiente probabilistico un ruolo primario nel ragionamento che individua e giustifica il nesso causale. Tuttavia tale criterio ermeneutico, sebbene sia adottato come prassi pacificamente e sia spesso giustificato dalle considerazioni della Corte di Cassazione nelle pronunce sottoposte al suo vaglio, nasconde delle insidie. Infatti, un uso indiscriminato del criterio logico- deduttivo rischia di produrre degenerazioni di tipo retorico che, come si riscontra talvolta nella prassi, imprimono arbitrariamente il suggello dell’elevata probabilità logica su ragionamenti probatori che rimangono altamente incerti quanto al carattere salvifico delle condotte mancate e che non si confrontano adeguatamente con la fattispecie concreta. Dunque, più corretto sembra procedere nel corso del giudizio ad una attenta ricerca e analisi delle contingenze nel caso concreto che, possano consentire di superare il principio della equivalenza di cause, che porta quale conseguenza, l’equiparazione e l’indifferenza sul piano probatorio delle singole condizioni non sempre necessarie per la verificazione dell’evento lesivo”. A tal proposito, assume fondamentale importanza il concetto di “rischio” che le parti assumono rispetto al ruolo esercitato nell’attività di impresa e che si traduce nella “probabilità di un danno come conseguenza di una decisione”. Il rischio in questo caso, riguarda la salute e la sicurezza dei lavoratori. E a ciascun “garante” è demandata la gestione di una o più aree di rischio proprio in virtù del ruolo ricoperto. È questa diversità di aree, che consente di delimitare e meglio specificare le diverse responsabilità che entrano in gioco in caso di infortunio. Pertanto solo una attenta e scrupolosa analisi del giudizio contro- fattuale della fattispecie concreta, parrebbe restringere non solo l’alveo delle condotte che, se trascurate, rimarrebbero impunite, ma anche, per contro escludere la punibilità di quelle condotte che risulterebbero irrilevanti ai fini della verificazione dell’evento e che rischierebbero di condannare indistintamente tutte le parti in causa per il citato principio dell’equivalenza delle cause.
Condivisibile dunque dalla scrivente è la recente pronuncia della Quarta sezione della Corte Suprema, che ha ribadito la necessità di affidarsi alla cosiddetta “causalità della colpa” nel senso che: “il rimprovero colposo deve riguardare la realizzazione di un fatto di reato che poteva essere evitato mediante l’esigibile osservanza delle norme cautelari violate. Dal che si profila il versante più oggettivo della colpa, nel senso che, per poter affermare una responsabilità colposa, non è sufficiente che il risultato offensivo tipico si sia prodotto come conseguenza di una condotta inosservante di una determinata regola cautelare, ma occorre che il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo che la regola cautelare violata intendeva fronteggiare. Occorre, cioè, che il risultato offensivo sia la concretizzazione del pericolo preso in considerazione dalla norma cautelare; ovvero, in altri termini, che l’evento lesivo rientri nella classe di eventi alla cui prevenzione era destinata la norma cautelare. Si evidenzia così la cosiddetta causalità della colpa e cioè il principio secondo cui il mancato rispetto della regola cautelare di comportamento da parte di uno dei soggetti coinvolti in una fattispecie colposa non è di per sé sufficiente per affermare la responsabilità di questo per l’evento dannoso verificatosi, se non si dimostri l’esistenza, in concreto, del nesso causale tra la condotta violatrice e l’evento”.