23 Dic reati ostativi
L’articolo 4-bis è stato introdotto nell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975) dal decreto-legge n. 152 del 1991, e immediatamente modificato – dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio – dal decreto-legge n. 306 del 1992. La disposizione ha subito nel tempo ricorrenti modifiche, ed è stata oggetto di numerose sentenze di illegittimità costituzionale. La peculiare ratio di tale disciplina è quella di differenziare il trattamento penitenziario dei condannati per reati di criminalità organizzata o altri gravi delitti, dal trattamento dei condannati “comuni”, subordinando l’accesso alle misure premiali e alternative previste dall’ordinamento penitenziario a determinate condizioni.
In particolare, il comma 1 dell’art. 4 bis OP elenca una serie di delitti indicati come ostativi: l’espiazione di una condanna relativa a tali delitti, infatti, non consente la concessione delle misure dell’assegnazione al lavoro all’esterno, dei permessi e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI OP, esclusa la liberazione anticipata.
Questa condizione giuridica è superabile soltanto in presenza di un’avvenuta collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter OP. L’art. 58-ter OP, infatti, nel definire il comportamento dei collaboranti, accosta sotto la stessa nozione di “collaborazione con la giustizia” due diversi tipi di condotta: essersi adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori; aver aiutato concretamente l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori di reato, inquadrabile nel tipo della collaborazione processuale.
Si tratta, come ha specificato la Corte costituzionale di una «disposizione speciale, di carattere restrittivo, in tema di concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o internati, che si presumono socialmente pericolosi unicamente in ragione del titolo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti».
I c.d. delitti ostativi, elencati dall’articolo 4-bis, comma 1, sono i seguenti: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis e 416-ter c.p. e delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività di tali associazioni; riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600, c.p.); induzione o sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-bis, comma 1, c.p.); produzione e commercio di materiale pornografico minorile (art. 600-ter, commi 1 e 2, c.p.); tratta di persone (art. 601, c.p.); acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 c.p.); violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies, c.p.); sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.); delitti relativi all’immigrazione clandestina (art. 12 t.u. immigrazione); associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater, T.U. dogane); associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74, T.U. stupefacenti).
Da ultimo, per effetto della legge n. 3 del 2019 (c.d. legge Spazzacorrotti), al catalogo di reati ostativi sono stati aggiunti taluni delitti contro la pubblica amministrazione: peculato (art. 314 c.p.); concussione (art. 317 c.p.); corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.); corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.); corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.); induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.); corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320 c.p.); istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.).
Per i sopra elencati delitti, in caso di assenza di collaborazione con la giustizia vige la presunzione assoluta di immanenza dei collegamenti: l’assenza di un’utile collaborazione fa presumere l’attualità dei collegamenti e, conseguentemente, l’immanenza della pericolosità sociale, senza che la magistratura di sorveglianza possa valutare il percorso rieducativo intrapreso dal condannato durante l’esecuzione della pena.
Il comma 1-bis, dell’art. 4-bis, per gli stessi reati sopra elencati, prevede il superamento del divieto di ammissione ai benefici, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; oppure nelle due ipotesi di c.d. collaborazione impossibile o irrilevante e cioè nei casi:
- di impossibilità di un’utile collaborazione con la giustizia determinata dalla limitata partecipazione al fatto criminoso;
- in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti sia stata applicata la circostanza attenuante dell’avvenuto risarcimento del danno (art. 62, numero 6, c.p.), oppure quella della minima partecipazione al fatto (art.114 c.p.) ovvero se il reato è più grave di quello voluto (art. 116, secondo comma, c.p.).
Con riguardo al procedimento per la concessione dei benefici, si prevede (commi 2 e 3 dell’art. 4-bis) che il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza debba acquisire dettagliate informazioni tramite il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato.
Inoltre, si prevede (comma 3-bis) che i benefici penitenziari non possono essere concessi ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale comunichi, d’iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tal caso non si applicano le procedure ordinarie.
Il comma 1-ter dell’art. 4-bis OP contiene un elenco dei delitti in relazione ai quali i benefici e le misure alternative possono essere concessi, salvo siano stati acquisiti elementi che indichino la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. In questi casi la preclusione dell’accesso ai benefici non si fonda su di un automatismo, ma sul vaglio della magistratura.
Si tratta dei seguenti delitti: • omicidio (art. 575 c.p.); • atti sessuali con minore ultraquattordicenne in cambio di denaro (art. 600-bis, secondo comma, c.p.); • turismo sessuale minorile (art. 600-quinquies c.p.) • rapina aggravata (art. 628, terzo comma); • estorsione aggravata (art. 629, secondo comma c.p.); • contrabbando aggravato di tabacchi • pornografia minorile (art. 600-ter) • associazione a delinquere (art. 416 c.p.) finalizzata alla violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies c.p.) • acquisto e alienazione di schiavi (art. 602 c.p.) • delitti di favoreggiamento e favoreggiamento aggravato dell’ingresso di immigrati clandestini.
Il comma 1-quater riguarda i casi in cui i benefici penitenziari possono essere concessi solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica. Si tratta, nello specifico dei condannati detenuti o internati per reati in materia sessuale e precisamente per i delitti di prostituzione minorile (art. 600-bis c.p.), pornografia minorile (art. 600-ter c.p.), detenzione di materiale pornografico (art. 600-quater c.p.), turismo sessuale volto allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-quinquies c.p.), violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), violenza sessuale aggravata (art. 609-ter c.p.), atti sessuali con minorenni.
Nelle più recenti pronunce, la Corte costituzionale ha conseguentemente affermato la necessità di attribuire al giudice il potere di valutare gli elementi del caso concreto per potere compiere una prognosi ragionevole circa l’idoneità di un determinato beneficio penitenziario a far proseguire il detenuto nel suo percorso di reinserimento.
In particolare, nella sentenza n. 149 del 2018, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 58-quater O.P. che prevedeva che i condannati all’ergastolo per il delitto di sequestro di persona che abbiano cagionato la morte del sequestrato non possono essere ammessi ad alcun beneficio se non abbiano effettivamente scontato almeno ventisei anni di pena. In tale sentenza la Corte ha ritenuto contrarie ai principi costituzionali di proporzionalità e individualizzazione della pena quelle previsioni che, in ragione della particolare gravità di alcuni reati, con automatismo assoluto, impediscono alla magistratura di sorveglianza di procedere a qualsiasi valutazione dei risultati ottenuti nel corso del suo percorso intra-muros dal detenuto rispetto ai quali non sussistono gli indizi di perdurante pericolosità sociale, privilegiando l’aspetto retributivo o di prevenzione generale della pena a detrimento della sua finalità di risocializzazione.
Con particolare riguardo all’articolo 4-bis, comma 1, dell’O.P. e alla preclusione assoluta di accesso al permesso premio (non degli altri benefici penitenziari indicati dalla stessa norma) da parte dei condannati per i reati cosiddetti ostativi, con la sentenza n. 253 del 2019 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale articolo «nella parte in cui non prevede che – ai detenuti per i delitti di cui all’articolo 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste – possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia…, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti».
Una prima apertura rispetto all’ergastolo ostativo c’è stata con la sentenza numero 253 del 23 ottobre 2019 della Corte Costituzionale che ha sollevato il dibattito sul rapporto tra il permesso premio e il reato definito come “ostativo” secondo l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Si propone quindi una riflessione sull’effetto del tempo sul percorso di rieducazione di un condannato, in particolare nei casi di ergastolo.
Si discute sull’idoneità di imporre una pena detentiva a vita per reati di grave rilevanza sociale, alla luce del principio costituzionale (articolo 27, comma 3) che richiede che le pene siano conformi al rispetto della dignità umana e volte alla rieducazione del condannato.
Per valutare la congruenza della pena dell’ergastolo con la Costituzione, si distingue tra due forme di ergastolo: quello “comune” e quello “ostativo”. L’ergastolo previsto dall’articolo 22 del codice penale solleva meno problematiche giuridiche rispetto al regime dell’ostatività. Sebbene teoricamente sia una pena a vita, nella prassi il detenuto condannato all’ergastolo ha la garanzia di una revisione della sua situazione e della pericolosità sociale dopo un certo periodo di detenzione. Pertanto, il condannato all’ergastolo “comune” mantiene il diritto a che la sua pena inflitta dallo Stato giunga a termine e che il suo percorso di rieducazione sia periodicamente rivalutato, al fine di agevolare un graduale reinserimento nella società.
Il punto cruciale per attenuare l’ergastolo e renderlo compatibile con i principi costituzionali risiede nell’accesso ai benefici penitenziari e alle alternative alla detenzione. Tuttavia, la strada verso la costituzionalizzazione della pena dell’ergastolo viene ostacolata dalla disposizione dell’articolo 4-bis, comma 1, della legge numero 354 del 1975 (ordinamento penitenziario), in relazione alla disciplina dell’ostatività.
Infatti, secondo quanto stabilito dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, al condannato per uno dei reati specificati – principalmente reati associativi – è impedito l’accesso ai benefici penitenziari, ai permessi premio, alla semilibertà e alla liberazione condizionale. Questo fa sì che l’ergastolo, che teoricamente potrebbe non essere perpetuo, diventi di fatto una pena coincidente con la vita del condannato quando si applica il concetto di ostatività. L’unica via per il condannato per interrompere questa limitazione è la possibilità di collaborare con la giustizia, secondo quanto previsto dall’articolo 58 dell’ordinamento penitenziario, qualora ciò sia fattibile e utile.
La Corte Costituzionale stessa ha evidenziato che la volontà di collaborare non è necessariamente indicativa di un autentico pentimento o dell’intenzione di intraprendere un percorso di rieducazione. Talvolta dietro questa scelta può celarsi unicamente un interesse utilitaristico anziché un reale ravvedimento, senza riflettere un’effettiva volontà di allontanarsi dal gruppo criminale.
Se da un punto di vista oggettivo, la collaborazione potrebbe essere considerata come un segno di distacco dall’associazione criminale, dal punto di vista soggettivo tale scelta non è garanzia né di un reale ravvedimento né della diminuzione del rischio di reiterazione di atti criminali.
Inoltre, non si tiene conto delle motivazioni che stanno dietro alla scelta di non collaborare. Questa decisione potrebbe non derivare tanto da collegamenti attuali con l’organizzazione criminale, ma piuttosto dalla paura di rappresaglie contro i familiari da parte dell’organizzazione o da un principio morale che impedisce di barattare la propria libertà con quella degli altri, sollevando così interrogativi sulla compatibilità con la libertà morale protetta costituzionalmente.
Questa disciplina presuppone implicitamente che il sistema sia infallibile, ignorando la possibilità di errori giudiziari.
Inoltre, si solleva un dubbio di costituzionalità riguardo al fatto che il diritto di non collaborare, garantito durante il processo in base al principio del diritto di difesa e del non autoincriminarsi, non venga rispettato, dal momento che si rileva un obbligo collaborativo nella fase esecutiva della pena per poter evitare un regime penitenziario più severo.
La complessità e la controversia sorgono dall’estensione del diritto al silenzio nella fase esecutiva della pena. Alcuni ritengono che tale diritto sia limitato alla fase processuale, mentre altri fanno notare che il codice di procedura penale riconosce la facoltà di non deporre in un processo collegato agli stessi fatti oggetto della condanna, ampliando di fatto tale garanzia anche oltre la fase processuale.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha esaminato la legittimità della pena a vita per chi non collabora con la giustizia nella sentenza Viola c. Italia, del 13 giugno 2019 (diventata definitiva il 5 ottobre 2019). Secondo la Corte di Strasburgo, questa disciplina viola il principio di umanità della pena, poiché nega al condannato (non collaborante) qualsiasi possibilità di reintegrazione nella società. La pronuncia in questione, riguarda la vicenda di Marcello Viola, cittadino italiano, condannato a fine anni ’90, dalla Corte d’Assise di Palmi, per i reati di associazione mafiosa, omicidio, sequestro di persona, possesso illegale di armi. Viola, in regime di 41 bis dal 2000, si era visto respingere le istanze volte ad ottenere i benefici penitenziari (permessi e liberazione condizionale), poiché, nonostante i rapporti dell’osservazione all’interno del carcere evidenziassero la buona condotta e un cambio positivo della sua personalità, non era stata accertata la collaborazione con la giustizia.
Dopo un’analisi storica della norma in questione, la Corte ha riconosciuto che la collaborazione prevista dall’articolo 58 dell’ordinamento penitenziario trova la sua ragione nello scambio di informazioni utili per le indagini e risponde a una strategia di politica criminale.
Tuttavia, è importante considerare che se incentivare la collaborazione può essere una strategia di politica criminale, un aspetto è prevedere un trattamento favorevole per chi collabora come un incentivo premiale per ottenere informazioni utili, e un altro è far sì che la mancanza di collaborazione si traduca in una penalizzazione significativa nell’esecuzione della pena. Questo significa un notevole peggioramento delle condizioni carcerarie per chi decide di non collaborare, il che, rispetto a un incoraggiamento attraverso sconti o esclusioni di punibilità, potrebbe contrastare con il principio di proporzionalità.
La Corte ha rilevato una contraddizione della disciplina penitenziaria con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, anche perché le peggiori condizioni di esecuzione della pena per coloro che scelgono di non collaborare non sono direttamente connesse al reato commesso.
La presunzione assoluta potrebbe essere superata dimostrando l’attuale assenza di legami con la criminalità organizzata. Tuttavia, questo processo non dipende solo dalla detenzione, ma richiede criteri avanzati e la collaborazione con altre autorità competenti.
È problematico dimostrare non solo l’assenza di legami attuali, ma anche il rischio di ripristino, considerando le circostanze personali e ambientali. L’onere di dimostrare questo spetta al condannato che richiede il permesso premio e richiede un’asserzione particolarmente complessa, essendo un’affermazione negativa. Questo onere diventa ancora più difficile se il condannato ha ricevuto pareri negativi dalle autorità competenti riguardo ai collegamenti con la criminalità organizzata.
La Corte Costituzionale non ha recepito in toto le argomentazioni della Corte EDU perché altrimenti avrebbe dovuto dichiarare l’integrale illegittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo proprio perché contrario al senso di umanità, di cui all’art. 27, comma 3, Cost. Per comprendere, invece, appieno il senso ed i limiti della sentenza della Corte Costituzionale bisogna partire dal caso concreto: la Corte di Cassazione, con ordinanza del 20.12.2018, aveva infatti sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, L. 20.4 1975, n. 354 in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., non in linea generale, ma soltanto nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo ostativo possa essere ammesso alla fruizione di un “permesso premio”.
La Corte afferma l’illegittimità della presunzione assoluta di pericolosità presente nell’art. 4-bis per contrasto proprio con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. L’art. 3 Cost. viene in considerazione in quanto la presunzione assoluta parifica irragionevolmente tutti i casi e l’art. 27, comma 3, Cost. perché, conseguentemente, essendo l’ergastolo ostativo contrario al senso di umanità, non può consentire quel processo di ‘individualizzazione’ che risulta funzionale, non solo al rispetto dello stesso senso di umanità ma anche, di conseguenza, alla stessa rieducazione del condannato. Dopo l’intervento della Corte Costituzionale, dunque, la presunzione di pericolosità di cui all’art. 4-bis diventa relativa, perciò si potranno concedere permessi-premio, non solo nell’ipotesi originaria relativa alla collaborazione processuale, ma anche in quella in cui il giudice dell’esecuzione, nel caso concreto, valuti, attraverso gli strumenti offertigli dall’ordinamento, dalla relazione del direttore dell’istituto penitenziario, alla valutazione del comportamento del condannato.
La Corte traccia anche il regime probatorio diviso fra oneri gravanti sul giudice di sorveglianza e quelli gravanti sul detenuto richiedente il beneficio. Il giudice di sorveglianza deciderà sulla base dei documenti offerti dalle autorità penitenziarie e dalle informazioni acquisite dalla Procura nazionale antimafia, dalla Procura distrettuale, dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza (laddove il magistrato di sorveglianza ritenga viziata la valutazione descritta dal documento della procura nazionale o distrettuale sarà tenuto a disapplicarlo come un qualsiasi atto amministrativo). Il richiedente deve invece allegare elementi idonei a escludere collegamenti, attuali e futuri, con il sodalizio criminale.
Per evitare uno svuotamento della portata della sentenza n. 253 bisognerà porre la dovuta attenzione e richiedere non informazioni generiche, congetture o affermazioni standardizzate, ma informazioni specifiche, dettagliate, precise derivanti anche dalle procure antimafia, e dagli organi altamente specializzati delle forze dell’ordine.
La soluzione accolta dalla Corte Costituzionale nella sentenza 253/2019 conferisce al giudice una discrezionalità certamente maggiore, che preoccupa l’opinione pubblica ed alcuni settori della magistratura. Basti pensare, ad esempio, che l’ergastolo ostativo è stato applicato a 1.225 ergastolani sul totale di 1.790 condannati alla pena perpetua (oltre il 70% del totale): in pratica, circa tre ergastolani su quattro sono ergastolani ostativi e ad oltre 400 di questi è applicato anche il regime detentivo speciale del 41-bis.
La preoccupazione dell’opinione pubblica legata ai vantaggi che potrebbe ricevere la criminalità organizzata, da anni impedisce riflessioni e riforme serie in tema di sistema sanzionatorio.
La sentenza della Corte Costituzionale ha costituito dunque un punto di partenza e non già di arrivo, non solo perché la sentenza si è soffermata solo sui permessi premio, ma in quanto prima o poi bisognerà domandarsi con più determinazione se lo stesso ergastolo, anche non ostativo, sia contrario o no alle norme costituzionali e/o comunitarie, superando la corsa dietro ogni possibile emergenza anche in un’ottica di rivisitazione del sistema sanzionatorio. Emergenze presunte e reali che condannano il sistema penale, nella parte relativa alle sanzioni, ad un irrazionale immobilismo e ad avere ancora un volto “carcero-centrico”, mentre compito del penalista e di un ideale legislatore è (e resterà) quello di andare alla ricerca qualcosa di meglio del carcere come prima ratio.