29 Apr responsabilità degli enti e prescrizione del reato
La disciplina della prescrizione di cui all’art. 22 d. lgs. n. 231/01 ha stimolato diversi interrogativi sui quali la giurisprudenza di legittimità è stata chiamata ad intervenire. Stando alla terminologia utilizzata dal legislatore, tale regime riguarderebbe le sole sanzioni amministrative (e non l’illecito amministrativo), disponendo un termine di prescrizione di cinque anni dalla consumazione del reato-presupposto. La Suprema Corte in una recente sentenza della Sez. I penale ha tuttavia stabilito che “deve affermarsi il principio di diritto secondo cui il termine di prescrizione stabilito dall’art. 22 d.lgs. 231 del 2001, in materia di responsabilità amministrativa delle società e degli enti, riguarda tanto l’illecito, che dunque non potrà più essere perseguito decorsi cinque anni dalla consumazione del reato presupposto, quanto la sanzione definitivamente irrogata, che dovrà essere riscossa, a pena di estinzione, entro il termine di cinque anni dal passaggio in giudicato della sentenza pronunciata a carico della persona giuridica”.
Interrogativi sono stati sollevati anche dal fatto che l’art. 11 della l. delega n. 300 del 2000 prescriveva che “l’interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile” (lett. r): infatti, ciò, in relazione alle cause di interruzione del termine di prescrizione indicate dal comma 2 dell’art. 22 d. lgs. 231 cit., quali la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’art. 59, ha suscitato il dubbio se per l’effetto interruttivo prodotto dalla contestazione dell’illecito debba aversi riguardo al momento dell’emissione della richiesta di rinvio a giudizio (o degli altri atti di esercizio dell’azione penale ex art. 405, comma 1, al quale fa riferimento l’art. 59 d. lgs cit.) o al momento della sua notificazione all’ente, come suggerirebbe il rimando alle norme del codice civile contenuto nella citata disposizione della legge delega.
Sul punto è stata più volte chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione, la quale ha visto al suo interno il sorgere di due distinti orientamenti: l’orientamento maggioritario, ormai consolidato, è nel senso che la semplice emissione della richiesta di rinvio a giudizio, in quanto atto di contestazione dell’illecito, interrompa la prescrizione; l’orientamento minoritario, rimasto isolato, àncora l’effetto interruttivo alla notifica, coerentemente con quanto previsto dall’art. 2943 c.c.. Gli ermellini hanno privilegiato i profili di parificazione tra imputato e ente, piuttosto che le indicazioni del legislatore delegante, ciò in piena coerenza con il fatto che il corpus normativo si interfaccia in maniera ambigua, a tratti ipocrita, al principio di parificazione tra imputato ed ente.
Vi è poi da analizzare la lettura combinata dei commi 3 e 4 dell’art. 22, secondo cui “per effetto dell’interruzione inizia un nuovo periodo di prescrizione”, il quale, se l’interruzione è avvenuta in seguito alla contestazione dell’illecito amministrativo, resta sospeso fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza. Bisogna aggiungere che, a differenza di quanto dispone l’art. 161, comma 2 c.p. per la prescrizione del reato, qui non sono previste soglie massime per i tempi di prescrizione dell’illecito amministrativo. Ciò determina una disparità di trattamento tra persona fisica ed ente, a svantaggio di quest’ultimo: inoltre, al di là di questo profilo di frizione con gli artt. 3, 24 comma 2 e 111 comma 2 Cost., è lo stesso legislatore a riconoscere il rischio di un’eccessiva dilatazione dei tempi processuali per l’accertamento della responsabilità amministrativa degli enti, affermando che “la scelta, invero, non pare delle più felici, visto che il rinvio ad una regolamentazione di stampo civilistico rischia di dilatare eccessivamente il tempo di prescrizione dell’illecito amministrativo dell’ente, potendo persino favorire deprecabili prassi dilatorie, specie nei casi in cui si proceda separatamente nei confronti dell’ente”.
Tali preoccupazioni sono fatte proprie anche dalla dottrina, la quale, da un lato, evidenzia l’irragionevolezza di una disciplina che non tiene conto dello “stretto rapporto di presupposizione che avvinghia l’illecito dell’ente al reato” e, dall’altro, sottolinea l’impossibilità di ipotizzare che il principio della ragionevole durata del processo si ponga in termini differenti per l’ente e per la persona fisica. Sulla base di tali presupposti è stata prospettata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 per contrasto con gli artt. 3, 24 comma 2 e 111 comma 2 Cost.: tuttavia, la Suprema Corte ha dichiarato la questione manifestamente infondata, argomentando unicamente sulla base della natura giuridica non penale della responsabilità dell’ente, grazie alla quale “può giustificarsi un regime derogatorio e differenziato con riferimento alla prescrizione. […] Il legislatore ha realizzato un bilanciamento tra le esigenze di durata ragionevole del processo, soprattutto nel prevedere un termine breve di prescrizione, e le esigenze di garanzia, corrispondenti nella specie al valore della completezza dell’accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all’illecito amministrativo dell’ente”. In dottrina si è osservato come l’argomentazione degli ermellini non convinca, in quanto, da un lato, è innegabile che le esigenze indicate dalla Suprema Corte si pongano anche nel processo alla persona fisica e, dall’altro lato, anche volendo considerare come assolutamente vera l’osservazione della maggiore complessità dell’accertamento della responsabilità dell’ente, si giustificherebbe, tutt’al più, una differenziazione nella determinazione dei ‘tetti’ della prescrizione, ma non certo la sospensione per tutta la durata del processo dei termini di prescrizione dell’illecito amministrativo. Inoltre, se si considera quanto stabilito dall’art. 8 d. lgs. cit. in merito all’autonomia della responsabilità dell’ente, appare evidente l’effetto sperequativo prodotto dalla differenziazione dei regimi di prescrizione, data la possibilità che risulti prescritto il reato e non l’illecito amministrativo da esso dipendente.
Infatti, anche volendo condividere la chiara scelta del legislatore, appare evidente, dalla lettura combinata degli artt. 8, 22, 59 e 60 del d. lgs. 231 del 2001, un ulteriore profilo di incoerenza: l’art. 60 preclude la contestazione di cui all’art. 59 nel caso in cui il reato-presupposto sia estinto per prescrizione; al contrario, si ricava che nel caso in cui l’illecito amministrativo fosse stato contestato prima della prescrizione del reato-presupposto, quest’ultima, intervenuta nelle more del giudizio, non produrrebbe effetti a favore dell’ente, in virtù del principio di autonomia della responsabilità dell’ente (art. 8). Tuttavia, si osserva che il meccanismo descritto dalla lettera dell’art. 60 opera in parziale deroga rispetto a tale principio, ragion per cui l’operazione del legislatore può essere osservata da due punti di vista: o da quello di una sciagurata contraddizione, ovvero da quello di uno sperequativo utilizzo normativo del binomio ‘bastone-carota’, da un lato, gravando la responsabilità dell’ente della caratteristica dell’autonomia (art. 8) e, dall’altro, escludendone l’operatività nel caso in cui la prescrizione del reato preceda la contestazione dell’illecito (art. 60).
Infine, un ulteriore profilo di frizione costituzionale (con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e con il diritto di difesa ex art. 24 Cost.) riguarda l’assenza di una previsione che consenta esplicitamente all’ente di rinunciare alla prescrizione, analogamente a quanto previsto invece per l’amnistia dall’art. 8, comma 3.