responsabilità del datore di lavoro

L’individuazione del perimetro della responsabilità del datore di lavoro nel contesto degli enti collettivi rappresenta tradizionalmente un importante banco di prova dei principi fondamentali del diritto penale. Sul campo si confrontano infatti due opposte esigenze. Da un lato vi è quella di individuare, anche nel contesto di organizzazioni complesse, centri d’imputazione delle responsabilità, anche penali, cui affidare la tutela di beni giuridici – quali la vita, l’integrità fisica e la pubblica incolumità – ritenuti meritevoli di particolare tutela1 . In questa prospettiva, dunque, il legislatore identifica specifici “garanti” – datore di lavoro, dirigente, preposto – in ragione della loro (presunta) capacità di dominare, neutralizzandoli, i fattori di rischio potenzialmente idonei a mettere in pericolo i beni in questione, pericoli che, d’altra parte, trovano la propria fonte nell’attività imprenditoriale. Le strutture sociali complesse rappresentano dunque «il tradizionale campo di sperimentazione dei reati propri e, più in particolare, di quella specifica categoria di reati propri in cui le qualifiche soggettive esprimono la peculiare posizione di dovere attribuita dalla fonte extrapenale al soggetto cui esse si riferiscono in ragione della sua vicinanza al bene, situazione che gli attribuisce una più marcata attitudine all’offesa e, insieme, alla difesa del bene medesimo.
La delega di funzioni, figura, come noto, inizialmente frutto di elaborazione giurisprudenziale, è stata elevata a rango di istituto normativo dall’art. 16 del d.lgs. n. 81 del 2008 (TUSL), ove se ne individuano forma, condizioni di ammissibilità e limiti. Senonché tale riconoscimento non ha sopito il dibattito riguardo la capacità dello strumento della delega di assicurare un’imputazione veramente personale. Il tema è venuto all’evidenza in particolare rispetto alle funzioni c.d. non delegabili: il riferimento è all’art. 16, co. 3, TUSL, che contempla il residuale obbligo di vigilanza sul delegato, nonché all’art. 17 dello stesso TUSL che pone a esclusivo carico del datore di lavoro sia la valutazione dei rischi, con la conseguente elaborazione del relativo documento descrittivo (c.d. DVR), sia la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (RSPP). Salvo la nomina del RSPP, si tratta all’evidenza di compiti estremamente delicati e per di più connotati da ampia discrezionalità e significativi margini di valutazione, elementi che rendono particolarmente accentuato il pericolo di interpretazioni giurisprudenziali improntate a rigore con il rischio di vanificare l’efficacia dello strumento della delega. In tema di predisposizione del DVR, ad esempio, la giurisprudenza tende a valutare in una prospettiva marcatamente ex post le eventuali carenze del documento o delle procedure che ad esso si riferiscono e, soprattutto, è incline a caricare il datore di lavoro di una capacità di analisi e valutazione del rischio più propriamente riferibile ai consulenti tecnici di cui è di regola si avvale a tal fine 11; analogamente, per quanto riguarda l’obbligo di vigilanza, nella prassi applicativa è frequente l’attribuzione al datore di lavoro di compiti di controllo quanto mai ampi e penetranti che si estendono, come noto, fino a ricomprendere la prevenzione di comportamenti negligenti o imprudenti del lavoratore. Il datore di lavoro s’identifica di regola nell’imprenditore che rappresenta il principale centro d’imputazione delle responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro. È, infatti, all’imprenditore, in coerenza con i vincoli posti dall’art. 41 Cost. alla libertà di iniziativa economica, che l’art. 2087 c.c. affida la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro, sul presupposto che, a norma degli artt. 2086 e 2094 c.c., a lui spetta il potere direttivo sull’attività dei subordinati e quindi, in ultima analisi, il compito e la concreta possibilità di dominare le fonti di pericolo imponendo le proprie determinazioni ed operando i necessari investimenti in presidi antinfortunistici. Senonché è noto che tale originaria impostazione ha subito significative evoluzioni in ragione della complessità e delle dimensioni dei processi produttivi moderni in cui progressivamente il decentramento delle attività supera la logica propriamente esecutiva per attuare una dislocazione dei poteri. In tali contesti, dunque, la figura tradizionale dell’imprenditore si frammenta in una pluralità di centri decisionali rispetto ai quali il vertice societario esercita, di regola, soltanto un potere di indirizzo strategico e di coordinamento. In questi scenari «un monopolio della garanzia sarebbe non solo incompatibile con la personalità della responsabilità penale, ma anche operativamente impari alla necessità di tutela»20 posta la distanza – spesso anche molto rilevante – che separa la vittima dall’agente21 . L’individuazione dei soggetti cui imputare responsabilità, anche penali, in materia di gestione della sicurezza sul lavoro si prospetta dunque in termini sostanzialmente diversi rispetto al tradizionale tema della delega di funzioni, con cui ha in comune unicamente l’esigenza di fondo, ovverosia quella di isolare centri d’imputazione reali e non soltanto formali. Si parla in tali contesti di modelli di gestione della sicurezza c.d. multidatoriali, in cui cioè convivono una pluralità di datori di lavoro e, dunque, garanti a titolo originario, in quanto preposti a distinte unità produttive. Il d.lgs. n. 81 del 2008 prende espressamente in considerazione dette realtà all’art. 2, lett. t), definendo l’unità produttiva come «stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale»25. Indicazioni più specifiche si rinvengono nella normativa lavoristica anche su impulso della riforma del lavoro operata dal d.lgs. n. 148 del 2015 in attuazione della l. n. 78 del 2014 (c.d. Jobs act) che ha per la prima volta valorizzato, seppure nella ristretta prospettiva dei trattamenti di integrazione salariale, le unità produttive. L’INPS, in sede di normativa secondaria, ha poi specificato la differenza tra unità operativa, ovvero il luogo dove si svolge stabilmente l’attività lavorativa di uno o più dipendenti oppure la sezione produttiva aziendale avente caratteristiche di omogeneità, e la vera e propria unità produttiva, identificata nello stabilimento o struttura finalizzata alla produzione di beni o all’erogazione di servizi che presenti i seguenti requisiti: sia dotata di autonomia finanziaria o tecnico funzionale; sia idonea a realizzare l’intero ciclo produttivo o una fase completa dallo stesso; abbia maestranze adibite in via continuativa. In coerenza con tale chiara indicazione, la giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni ribadito la necessità di procedere a una effettiva individuazione delle diverse posizioni di garanzia all’interno di strutture aziendali articolate e complesse, rifuggendo da addebiti fondati su responsabilità di tipo oggettivo legate alla mera carica rivestita e procedendo, viceversa, in ossequio all’art. 27 Cost., alla puntuale identificazione dei soggetti in concreto gestori del rischio. Il principio è stato autorevolmente fissato anzitutto dalle Sezioni Unite nel caso Thyssen, laddove si è evidenziato che è imprescindibile «una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, dall’altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Si tratta, in breve, di una ricognizione essenziale per un’imputazione che voglia essere personalizzata, in conformità ai sommi principi che governano l’ordinamento penale; per evitare l’indiscriminata, quasi automatica attribuzione dell’illecito a diversi soggetti. La fondamentale funzione di garanzia che il legislatore comunque attribuisce, anche in materia di sicurezza del lavoro, all’imprenditore e la constatazione che, soprattutto negli enti di grandi dimensioni, il decentramento delle funzioni (anche) decisionali rappresenta un’esigenza funzionale al perseguimento di una molteplicità di interessi impongono ora di interrogarsi in merito al ruolo e alle eventuali responsabilità che, anche in materia penale, residuano in capo al massimo vertice della società46 . La fonte primaria di tali posizioni di garanzia è da rinvenire nello stesso art. 2, lett. b), TUSL che, come detto, contempla la possibilità che, all’interno dell’impresa, convivano una pluralità di “datori di lavoro” a titolo originario i cui ambiti di responsabilità dovranno essere distinti sulla base dello specifico profilo di rischio alla cui gestione ciascuno di essi è preposto in base all’organizzazione aziendale.